recensione danza contemporanea
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Données immédiates de la conscience – Dottoressa Anna Zevoli

Données immédiates de la conscience – Dottoressa Anna Zevoli

Données immédiates de la conscience

Nella misura in cui realizza la sua intenzione, espressa con intensità nel testo poetico che lo introduce, Données immédiates de la conscience, in Prima assoluta al teatro Out Off di Milano (5 aprile 2006) è uno spettacolo cui sicuramente riesce il rapimento dello spettatore entro un’atmosfera magnetica, resa tale sia dalla qualità della performance di Paolo Rudelli sia dallo straordinario live dei Winter Family.

Pianoforte e voce creano una sorta di emanazione contigua e vibrante che accompagna gli eventi, anche se, talvolta, prevarica e vive con episodi di emotività suoi propri, creando nell’insieme un pregevole concerto di moti dell’animo.

Dal canto suo Rudelli desidera esporsi nell’esperienza estrema dei sensi (sto citando), rendere visibile la sua interiorità e la profondità dei tormenti dell’io, affidandosi al potere espressivo insito in ogni singola sensazione. Pur sfiorando l’autocompiacimento, il percorso che ci offre è capace di stemperare questo rischio ed ogni presupposto narcisistico con un pudore, un’eleganza e una sensibilità senza cedimenti.

Lo testimonia, a mio avviso, l’alternarsi dei due medium prescelti, le immagini video e il corpo, cui sembrano affidati due compiti diversi ma assolutamente complementari: l’enorme urlo ‘baconiano’, fatto di smorfie deformanti e dilatate, ci fa presagire ciò che invece viviamo seguendo sospesi i primi e obliqui, quasi titubanti passi del danzatore che, sotto un’impietosa luce bianca, a poco a poco cerca il suo climax di esasperazione nello spazio.

Allo ‘sfacciato’ disgusto che si prova di fronte alle immagini di una esplorazione tattile, direi ‘papillare’, che rimanda ad un contesto di solitaria e disarmante intimità, segue il calore di una luce che avvolge, quasi difendendolo, il contatto della nudità con se stessa, di una fragilità davvero emozionante. Poi di nuovo uno sguardo circoscritto nelle immagini al centro del palco, che ci chiedono di osservare e vivere il tormento delle mani che, da sole, interpretano i ‘dati immediati della coscienza’: il qui ed ora sgorga e si amplifica, mentre il danzatore si fa letteralmente da parte.

Infine, un blu quasi notturno invita ad un raccoglimento più quieto di fronte agli ultimi, ma quasi stoici esperimenti di sofferenza, dai pugni serrati allo sfinimento alla mortificazione della carne, in cui si coglie una certa aspirazione mistica, del resto ripresa, secondo me, dall’immagine finale: un’icona che non chiede giudizio mentre scompare dietro fiotti di sangue (inchiostro), bensì ‘com-passione’, nel senso etimologico della parola.

Apprezzare le notizie primarie dei sensi avendo la costanza anche sfibrante di ascoltarli fino in fondo, sembra dirci questo spettacolo, permette una conseguenza di verità e validità universali: quando la sofferenza trova il coraggio di evadere attraverso il corpo e di cercare la sua forma di espressione più propria per sé, essa si trasforma in una sorta di libertà che è anche liberazione.

E per quel che riguarda lo spettatore, la “lapidazione” degli sguardi e il voyeurismo ad essi associato, di cui Rudelli è ben conscio, si tramuta forse, suo malgrado, in qualcosa di positivo, “alla fine”, per ognuno di noi: il “silenzio che resta” sembra contenere una sorta di ossequio per ciò che noi stessi sempre siamo e, parafrasando W.Whitman, chi fa la sua strada senza mai conoscere la simpatheia, insegue il suo funerale a distanza.

 Dottoressa Anna Zevolli

Données immédiates de la conscience

Nella misura in cui realizza la sua intenzione, espressa con intensità nel testo poetico che lo introduce, Données immédiates de la conscience, in Prima assoluta al teatro Out Off di Milano (5 aprile 2006) è uno spettacolo cui sicuramente riesce il rapimento dello spettatore entro un’atmosfera magnetica, resa tale sia dalla qualità della performance di Paolo Rudelli sia dallo straordinario live dei Winter Family.

Pianoforte e voce creano una sorta di emanazione contigua e vibrante che accompagna gli eventi, anche se, talvolta, prevarica e vive con episodi di emotività suoi propri, creando nell’insieme un pregevole concerto di moti dell’animo.

Dal canto suo Rudelli desidera esporsi nell’esperienza estrema dei sensi (sto citando), rendere visibile la sua interiorità e la profondità dei tormenti dell’io, affidandosi al potere espressivo insito in ogni singola sensazione. Pur sfiorando l’autocompiacimento, il percorso che ci offre è capace di stemperare questo rischio ed ogni presupposto narcisistico con un pudore, un’eleganza e una sensibilità senza cedimenti.

Lo testimonia, a mio avviso, l’alternarsi dei due medium prescelti, le immagini video e il corpo, cui sembrano affidati due compiti diversi ma assolutamente complementari: l’enorme urlo ‘baconiano’, fatto di smorfie deformanti e dilatate, ci fa presagire ciò che invece viviamo seguendo sospesi i primi e obliqui, quasi titubanti passi del danzatore che, sotto un’impietosa luce bianca, a poco a poco cerca il suo climax di esasperazione nello spazio.

Allo ‘sfacciato’ disgusto che si prova di fronte alle immagini di una esplorazione tattile, direi ‘papillare’, che rimanda ad un contesto di solitaria e disarmante intimità, segue il calore di una luce che avvolge, quasi difendendolo, il contatto della nudità con se stessa, di una fragilità davvero emozionante. Poi di nuovo uno sguardo circoscritto nelle immagini al centro del palco, che ci chiedono di osservare e vivere il tormento delle mani che, da sole, interpretano i ‘dati immediati della coscienza’: il qui ed ora sgorga e si amplifica, mentre il danzatore si fa letteralmente da parte.

Infine, un blu quasi notturno invita ad un raccoglimento più quieto di fronte agli ultimi, ma quasi stoici esperimenti di sofferenza, dai pugni serrati allo sfinimento alla mortificazione della carne, in cui si coglie una certa aspirazione mistica, del resto ripresa, secondo me, dall’immagine finale: un’icona che non chiede giudizio mentre scompare dietro fiotti di sangue (inchiostro), bensì ‘com-passione’, nel senso etimologico della parola.

Apprezzare le notizie primarie dei sensi avendo la costanza anche sfibrante di ascoltarli fino in fondo, sembra dirci questo spettacolo, permette una conseguenza di verità e validità universali: quando la sofferenza trova il coraggio di evadere attraverso il corpo e di cercare la sua forma di espressione più propria per sé, essa si trasforma in una sorta di libertà che è anche liberazione.

E per quel che riguarda lo spettatore, la “lapidazione” degli sguardi e il voyeurismo ad essi associato, di cui Rudelli è ben conscio, si tramuta forse, suo malgrado, in qualcosa di positivo, “alla fine”, per ognuno di noi: il “silenzio che resta” sembra contenere una sorta di ossequio per ciò che noi stessi sempre siamo e, parafrasando W.Whitman, chi fa la sua strada senza mai conoscere la simpatheia, insegue il suo funerale a distanza.

Dottoressa Anna Zevolli

Données immédiates de la conscience

Nella misura in cui realizza la sua intenzione, espressa con intensità nel testo poetico che lo introduce, Données immédiates de la conscience, in Prima assoluta al teatro Out Off di Milano (5 aprile 2006) è uno spettacolo cui sicuramente riesce il rapimento dello spettatore entro un’atmosfera magnetica, resa tale sia dalla qualità della performance di Paolo Rudelli sia dallo straordinario live dei Winter Family.

Pianoforte e voce creano una sorta di emanazione contigua e vibrante che accompagna gli eventi, anche se, talvolta, prevarica e vive con episodi di emotività suoi propri, creando nell’insieme un pregevole concerto di moti dell’animo.

Dal canto suo Rudelli desidera esporsi nell’esperienza estrema dei sensi (sto citando), rendere visibile la sua interiorità e la profondità dei tormenti dell’io, affidandosi al potere espressivo insito in ogni singola sensazione. Pur sfiorando l’autocompiacimento, il percorso che ci offre è capace di stemperare questo rischio ed ogni presupposto narcisistico con un pudore, un’eleganza e una sensibilità senza cedimenti.

Lo testimonia, a mio avviso, l’alternarsi dei due medium prescelti, le immagini video e il corpo, cui sembrano affidati due compiti diversi ma assolutamente complementari: l’enorme urlo ‘baconiano’, fatto di smorfie deformanti e dilatate, ci fa presagire ciò che invece viviamo seguendo sospesi i primi e obliqui, quasi titubanti passi del danzatore che, sotto un’impietosa luce bianca, a poco a poco cerca il suo climax di esasperazione nello spazio.

Allo ‘sfacciato’ disgusto che si prova di fronte alle immagini di una esplorazione tattile, direi ‘papillare’, che rimanda ad un contesto di solitaria e disarmante intimità, segue il calore di una luce che avvolge, quasi difendendolo, il contatto della nudità con se stessa, di una fragilità davvero emozionante. Poi di nuovo uno sguardo circoscritto nelle immagini al centro del palco, che ci chiedono di osservare e vivere il tormento delle mani che, da sole, interpretano i ‘dati immediati della coscienza’: il qui ed ora sgorga e si amplifica, mentre il danzatore si fa letteralmente da parte.

Infine, un blu quasi notturno invita ad un raccoglimento più quieto di fronte agli ultimi, ma quasi stoici esperimenti di sofferenza, dai pugni serrati allo sfinimento alla mortificazione della carne, in cui si coglie una certa aspirazione mistica, del resto ripresa, secondo me, dall’immagine finale: un’icona che non chiede giudizio mentre scompare dietro fiotti di sangue (inchiostro), bensì ‘com-passione’, nel senso etimologico della parola.

Apprezzare le notizie primarie dei sensi avendo la costanza anche sfibrante di ascoltarli fino in fondo, sembra dirci questo spettacolo, permette una conseguenza di verità e validità universali: quando la sofferenza trova il coraggio di evadere attraverso il corpo e di cercare la sua forma di espressione più propria per sé, essa si trasforma in una sorta di libertà che è anche liberazione.

E per quel che riguarda lo spettatore, la “lapidazione” degli sguardi e il voyeurismo ad essi associato, di cui Rudelli è ben conscio, si tramuta forse, suo malgrado, in qualcosa di positivo, “alla fine”, per ognuno di noi: il “silenzio che resta” sembra contenere una sorta di ossequio per ciò che noi stessi sempre siamo e, parafrasando W.Whitman, chi fa la sua strada senza mai conoscere la simpatheia, insegue il suo funerale a distanza.

 Dottoressa Anna Zevolli

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